Il tuo browser non supporta l'audio HTML5.
Antonino Burrafato era un uomo perbene.  Un siciliano vero. Nasce il 13 giugno del 1933 a Nicosia nel cuore della Sicilia. Sono anni difficili. Sin da piccolo, Antonino alterna gli studi al lavoro dei campi.  Da ragazzo, poi trova lavoro come calzolaio in una piccola bottega del paese. Ma quel mestiere è destinato a scomparire e Antonino -  anche per coronare il sogno di sposare la sua amata Mimma, l’unica donna della sua vita - decide di dare una scossa a quel destino che non accetta. Così partecipa al concorso per guardia penitenziaria e lo vince. Adesso ha un lavoro sicuro, è orgoglioso di far parte delle Istituzioni, e sa di poter mettere su famiglia. Dopo il matrimonio con Mimma, nel 1965, arriva Totò, il loro unico figlio. Come da tradizione, porta il nome del nonno paterno. Antonino è un padre amorevole e rigoroso. Totò è lo specchio della sua speranza. In lui Antonino ripone il sogno di una vita migliore.
➡
⬅
Il lavoro lo porta a Termini Imerese. Di quel penitenziario – che per un breve periodo di tempo è stato anche carcere di massima sicurezza - Antonino è diventato il perno insostituibile. Vice brigadiere degli agenti di custodia, Burrafato ha il compito di dirigere l’ufficio matricola della Casa circondariale dei Cavallacci. Un ruolo delicato, a capo dell’ufficio che di fatto gestisce tutte le comunicazioni che intercorrono tra i detenuti e l’autorità giudiziaria. È qui che avviene l’identificazione dei detenuti, si gestiscono le pratiche e si registrano tutti i movimenti. Scrupoloso, fedele e attento esecutore degli ordini che gli venivano impartiti, sempre contrario ad ogni forma di compromesso o di sudditanza nei confronti dei reclusi, era comunque comprensivo rispetto alla dimensione umana dei carcerati. Ma sempre entro il perimetro della Legge. Un recinto inviolabile.
Il tuo browser non supporta l'audio HTML5.
Quella del 1982 è un’estate caldissima. Non solo per l’afa. E’ in corso la seconda guerra di mafia e l’Italia – colpita da una grave crisi economica – deve fare i conti con il terrorismo. Eppure quel pomeriggio del 29 giugno l'Italia è pronta a dimenticare tutti i suoi problemi. Mancano poche ore al fischio d’inizio di Italia Argentina: la nazionale di Paolo Rossi contro l'Argentina di Diego Armando Maradona al Mundial di Spagna. Antonino, quella partita, avrebbe voluto vederla con suo figlio Totò. Ma non è possibile, deve tornare al lavoro, in carcere. Mimma gli ha preparato un caffè. Se lo gusta affacciato al balcone di casa, gettando un ultimo sguardo al golfo di Termini Imerese. Totò è in ansia, vuole parlare della partita che tutta Italia aspetta. “Papà, io credo che possiamo vincere”, sono le parole del ragazzo. Antonino ci spera, ma non vuole che suo figlio abbia una cocente delusione. Totò gli ricorda che bisogna far rilegare il dizionario. Così Antonio prende quel librone rosso tra le mani, promettendo di passare dalla cartoleria alla fine della giornata di lavoro. Poi, un commento sulla classe di Maradona, un bacio a Mimma e una pacca sulla spalla di Totò. Esce da casa per l’ultima volta.
Quella del 1982 è un’estate caldissima. Non solo per l’afa. E’ in corso la seconda guerra di mafia e l’Italia – colpita da una grave crisi economica – deve fare i conti con il terrorismo. Eppure quel pomeriggio del 29 giugno l'Italia è pronta a dimenticare tutti i suoi problemi. Mancano poche ore al fischio d’inizio di Italia Argentina: la nazionale di Paolo Rossi contro l'Argentina di Diego Armando Maradona al Mundial di Spagna. Antonino, quella partita, avrebbe voluto vederla con suo figlio Totò. Ma non è possibile, deve tornare al lavoro, in carcere. Mimma gli ha preparato un caffè. Se lo gusta affacciato al balcone di casa, gettando un ultimo sguardo al golfo di Termini Imerese. Totò è in ansia, vuole parlare della partita che tutta Italia aspetta. “Papà, io credo che possiamo vincere”, sono le parole del ragazzo. Antonino ci spera, ma non vuole che suo figlio abbia una cocente delusione. Totò gli ricorda che bisogna far rilegare il dizionario. Così Antonio prende quel librone rosso tra le mani, promettendo di passare dalla cartoleria alla fine della giornata di lavoro. Poi, un commento sulla classe di Maradona, un bacio a Mimma e una pacca sulla spalla di Totò. Esce da casa per l’ultima volta.
La casa della famiglia Burrafato dista poco più di duecento metri dal potere del carcere di Termini. A casa Antonino non lascia trasparire le sue emozioni ma ha tanti pensieri per la testa. Sono giorni difficili, di tensione, da qualche tempo il clima in carcere era cambiato. Così, per prudenza, il vice brigadiere ha studiato due percorsi alternativi per andare al lavoro. Quel pomeriggio del 29 giugno sceglie di seguire la via Vittorio Amedeo per poi entrare a piazza Sant'Antonio e giungere così al carcere di via Zara. Ma a piazza Sant'Antonio, all'altezza del civico nove, ci sono due auto ad attenderlo. I killer sparano con un fucile caricato a lupara e con una rivoltella. I colpi vengono esplosi ad una distanza di tre metri. Viene colpito alla testa e al petto, viene soccorso e portato in ospedale, ma non c'è niente da fare. Sul selciato resterà il dizionario di Totò, sporco di sangue. Ricoverato all’Ospedale Cimino di Termini Imerese in condizione disperate, Antonino Burrafato muore per le gravi ferite riportate. Aveva soltanto 49 anni.
L’agenzia di stampa ANSA “batte” la notizia dell’agguato ai danni di Burrafato alle 19,25. Il lancio è firmato da due cronisti di punta del giornalismo d’inchiesta: Lucio Galluzzo e Franco Viviano. E c’è già chi mesta nel torbido. Alle 17, infatti, al centralino del Giornale di Sicilia era arrivata una telefonata anonima. La trascrizione di quella chiamata recita così “Abbiamo giustiziato Burrafato per le torture inflitte all'Asinara. Questo è il primo omicidio di una lunga serie”. Chi parla al telefono sostiene di farlo a nome di una fantomatica colonna siciliana delle Brigate Rosse. L'omicidio di Antonino Burrafato verrà nuovamente rivendicato dai terroristi della stella a cinque punte. Lo faranno il 7 luglio di quell’anno, nel corso di un’udienza del processo Moro, Franco Bonisoli e Gianantonio Zanetti, due esponenti dell'ala dura delle Brigate Rosse. La tesi dell’omicidio legato al terrorismo non convince il capitano dei carabinieri Gennaro Scala. Nel suo rapporto, l’ufficiale dell’Arma scrive chiaramente che dietro quel fatto di sangue c'era sicuramente la mano di Cosa Nostra. L’intuizione di Scala è corretta ma per conoscere la verità, dovranno passare 15 anni.
L’agenzia di stampa ANSA “batte” la notizia dell’agguato ai danni di Burrafato alle 19,25. Il lancio è firmato da due cronisti di punta del giornalismo d’inchiesta: Lucio Galluzzo e Franco Viviano. E c’è già chi mesta nel torbido. Alle 17, infatti, al centralino del Giornale di Sicilia era arrivata una telefonata anonima. La trascrizione di quella chiamata recita così “Abbiamo giustiziato Burrafato per le torture inflitte all'Asinara. Questo è il primo omicidio di una lunga serie”. Chi parla al telefono sostiene di farlo a nome di una fantomatica colonna siciliana delle Brigate Rosse. L'omicidio di Antonino Burrafato verrà nuovamente rivendicato dai terroristi della stella a cinque punte. Lo faranno il 7 luglio di quell’anno, nel corso di un’udienza del processo Moro, Franco Bonisoli e Gianantonio Zanetti, due esponenti dell'ala dura delle Brigate Rosse. La tesi dell’omicidio legato al terrorismo non convince il capitano dei carabinieri Gennaro Scala. Nel suo rapporto, l’ufficiale dell’Arma scrive chiaramente che dietro quel fatto di sangue c'era sicuramente la mano di Cosa Nostra. L’intuizione di Scala è corretta ma per conoscere la verità, dovranno passare 15 anni.
Le vere ragioni dell’omicidio di Antonino Burrafato saranno svelate dal pentito di mafia, Salvatore Cocuzza. Nel 1996, il pentito rivela di essere stato lui stesso parte del gruppo di fuoco e che, quanto accaduto era stato per scelta e volontà del boss Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina. In pratica “il peccato mortale” di Burrafato era stato quello di aver applicato il regolamento carcerario al boss. L’omicidio è stato compiuto per ordine di Leoluca Bagarella, il cognato di Totò Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra. Il gruppo di fuoco era composto da Pino Greco, detto Scarpuzzedda, Giuseppe Lucchese, Antonio Marchese e dallo stesso Cucuzza, Leoluca Bagarella e Antonio Marchese sono stati condannati all'ergastolo con sentenza definitiva. Salvatore Cucuzza è stato condannato a 10 anni con sentenza definitiva.
Le vere ragioni dell’omicidio di Antonino Burrafato saranno svelate dal pentito di mafia, Salvatore Cocuzza. Nel 1996, il pentito rivela di essere stato lui stesso parte del gruppo di fuoco e che, quanto accaduto era stato per scelta e volontà del boss Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina. In pratica “il peccato mortale” di Burrafato era stato quello di aver applicato il regolamento carcerario al boss. L’omicidio è stato compiuto per ordine di Leoluca Bagarella, il cognato di Totò Riina, il capo dei capi di Cosa Nostra. Il gruppo di fuoco era composto da Pino Greco, detto Scarpuzzedda, Giuseppe Lucchese, Antonio Marchese e dallo stesso Cucuzza, Leoluca Bagarella e Antonio Marchese sono stati condannati all'ergastolo con sentenza definitiva. Salvatore Cucuzza è stato condannato a 10 anni con sentenza definitiva..
Nel 1974 la sorella del boss Leoluca Bagarella, spietato assassino legato ai Corleonesi, aveva sposato in segreto Totò Riina, seguendolo nella latitanza. “Don Luchino”, autore di centinaia di spietati omicidi, in quel 1982 era già detenuto in carcere, arrestato nel settembre del 1979, due mesi dopo l'omicidio del commissario Boris Giuliano. La notizia della morte del padre gli era valsa la possibilità di far visita ai suoi familiari. Per questa ragione il boss era in transito nel carcere di Termini Imerese. Ed è qui, in questo frangente, che si consuma l’episodio che costerà la vita al vicebrigadiere Burrafato. Proprio in quei giorni, infatti, fu emessa, nei confronti di Bagarella, l’ennesima ordinanza di custodia cautelare. Questa circostanza non consentiva più la concessione del permesso. Tocca ad Antonino procedere alla notifica e comunicare la notizia al boss, il quale, ovviamente, si infuriò. I due discussero animatamente e Bagarella promise vendetta. Qualcuno, del resto, aveva lasciato intendere che l’applicazione del regolamento fosse più che altro legato ad un’iniziativa personale del vicebrigadiere. Mio Padre aveva semplicemente applicato la legge.
Nel 1974 la sorella del boss Leoluca Bagarella, spietato assassino legato ai Corleonesi, aveva sposato in segreto Totò Riina, seguendolo nella latitanza. “Don Luchino”, autore di centinaia di spietati omicidi, in quel 1982 era già detenuto in carcere, arrestato nel settembre del 1979, due mesi dopo l'omicidio del commissario Boris Giuliano. La notizia della morte del padre gli era valsa la possibilità di far visita ai suoi familiari. Per questa ragione il boss era in transito nel carcere di Termini Imerese. Ed è qui, in questo frangente, che si consuma l’episodio che costerà la vita al vicebrigadiere Burrafato. Proprio in quei giorni, infatti, fu emessa, nei confronti di Bagarella, l’ennesima ordinanza di custodia cautelare. Circostanza che, a rigore, non avrebbe più consentito la concessione del permesso. Tocca ad Antonino procedere alla notifica e comunicare la notizia al boss, il quale, ovviamente, si infuriò. I due discussero animatamente e Bagarella promise vendetta. Qualcuno, del resto, aveva lasciato intendere che quell’estremo rigore nell’applicazione del regolamento fosse più che altro legato ad un’iniziativa personale del vicebrigadiere. Che invece aveva semplicemente applicato la legge.